Al termine della due giorni a Palazzo Caracciolo, è toccato ai più influenti critici gastronomici di tutta Italia provare a tirare le somme e tracciare un possibile scenario per il futuro della Pizza Napoletana. Moderata da Guido Barendson, la tavola rotonda finale ha visto le opinioni – geograficamente e “filosoficamente” trasversali ed eterogenee – di Luigi Cremona, Paolo Marchi, Luciano Pignataro, Enzo Vizzari e Daniel Young. Se i primi non hanno bisogno di presentazioni, ci sembra opportuno ricordare che Young, americano a Londra, è riconosciuto come il guru della pizza nel Regno Unito e non solo: tra pochi mesi uscirà Where To Eat Pizza, la prima guida mondiale alle pizzerie edita da Phaidon, da lui curata con il contributo di esperti da tutto il mondo, Italia inclusa.
Proprio Daniel Young ha aperto la discussione, con alcune pillole di saggezza anglosassone che aiutano a guardare con un pizzico di necessario distacco la “questione pizza” anche a Napoli. «Ci possono essere due nozioni di “autenticità” riguado al cibo e dunque alla pizza – ha spiegato – La prima ha a che fare con le origini, e ci dice che la pizza è “nata” a Napoli, ed è soffice perché da sempre qui si fa così. La seconda ha a che fare con la memoria: la pizza che mangiavo da piccolo era quella di New York, anche se fatta da pizzaioli di orgine napoletana, ed era croccante. Oggi in tanti siamo attratti dalla pizza napoletana, vogliamo conoscerla e scoprirla e consideriamo i pizzaioli napoletani dei maestri e degli eroi, ma il mondo cercando un compromesso tra soffice e croccante». Riguardo al tema del convegno Young ha segnato un punto a favore del forno a legna, inaspettatamente proveniente proprio dall’estero, dove maggiori dovrebbero essere le difficoltà: «Negli USA come in Australia, i forni a legna non solo non diminuiscono ma anzi sono in continuo aumento: è la nuova tendenza, un simbolo di artigianalità al pari dei pomodori San Marzano, e artigiani come Stefano Ferrara sono delle star!». Secondo lui senza il forno a legna si perderebbe qualcosa di molto speciale; ma è vero anche che a nulla serve fare gli struzzi e chiudersi dentro le proprie convinzioni. «Il calcio moderno è nato in Inghilterra – ha raccontato ancora con un’efficace metafora – ma sappiamo che non è lì che ci sono i più grandi giocatori, oggi. La Pizza Napoletana è la migliore non perché sia nata qui, ma perché si fa con orgoglio e passione. I pizzaioli napoletani hanno grandi opportunità e grandi responsabilità nel portarla nel resto del mondo. A loro dico: siate puristi, ma non siate protezionisti». Young ha poi messo in guardia dalle esagerazioni, tanto sulle pizze stesse – «Le pizze classiche come la marinara e la margherita sono dei capolavori di eleganza; se si vuole innovare bisogna pensare come gli chef ma senza strafare» – quanto sull’overload di comunicazione: «Fate le vostre pizze pensando a quanto sono buone, non a quanto sono fotogeniche su Instagram». Il futuro della Pizza Napoletana, ha concluso, sta nell’aprirsi a nuovi input restando se stessa. Ma è necessario avere un progetto, sapere dove vuole andare.
Concorda Enzo Vizzari, dopo aver fatto una necessaria distinzione tra Pizza Napoletana e pizza tout court: «In Italia la pizza non è mai stata così buona, anche a Napoli – ha detto il Direttore delle Guide dell’Espresso – Questo anche grazie alla crescita delle “altre” pizze, e alla diffusione della Pizza Napoletana fuori Napoli». Fondamentale, ha aggiunto poi, puntare sulla formazione, molto più che sui “marchi”: «Servono la trasmissione del sapere e la tutela dei prodotti di qualità».
Più polemico – e forse realista – Paolo Marchi, creatore e curatore di Identità Golose: «La pizza è la dimostrazione di come troppo spesso noi Italiani gettiamo alle ortiche i nostri tesori. Se nel 2016 dobbiamo parlare ancora di formazione, vuol dire che è la certificazione del fallimento della scuola italiana. Il nostro limite, troppo spesso, è l’improvvisazione, ma anche l’incapacità di fare autocritica e l’eccessiva suscettibilità. Anche a Napoli si mangiano pizze cattive, tutto sta nella bravura di chi la fa. Qui il modo di farla cambia addirittura da quartiere a quartiere a quartiere, mentre nel mondo intanto la pizza la fanno tutti, ognuno a modo suo». Va bene voler tenere la primogenitura, ha concluso Marchi, e tutelare l’identità italiana o napoletana magari riuscendo una volta tanto a fare gioco di squadra, ma bisogna anche sapere vedere il presente ed essere consapevoli di quello che accade non troppo lontano da noi.
Ritorna sull’aspetto culturale Luigi Cremona, giornalista e critico gastronomico per il Touring Club: «La pizza è anche cultura, pure a Roma c’è una tradizione a riguardo ma è completamente differente». Sono diversi gli elementi da tenere in considerazione, ha ricordato Cremona: dai prezzi, che non dovrebbero essere troppo bassi pena lo scadimento della qualità, alle persone, che fanno il successo della pizza in quanto prodotto artigianale. E la cottura? «È una questione tecnica – ha detto il critico-ingegnere – che va analizzata soprattutto sotto gli aspetti della razionalità e dell’efficienza. Per me il migliore in assoluto è il forno tandoori, ma è molto complesso e infatti oggi raramente viene usato nei tanti ristoranti indiani nel mondo che hanno trovato modalità di cottura alternative. Lo stesso può valere per il forno a legna e la pizza napoletana».
Chiude il cerchio Luciano Pignataro, tentando di tirare le fila del discorso. «La pizza è un piatto ancestrale e moderno insieme, prendiamo per esempio l’aspetto della salute quanto mai attuale – ha detto il giornalista de Il Mattino – Il mio timore è però che Napoli non riesca a cogliere quello che sta succedendo nel mondo, correndo il rischio di auto rappresentazione. Dirsi che siamo i migliori non basta; come la gastronomia campana ha avuto la capacità di aggiornarsi, raggiungendo i vertici nazionali, può farlo anche la pizza». Ma è necessario avere un progetto, sottolinea Pignataro, e puntare sulle competenze: «Più il lavoro è difficile da replicare, minore è il rischio di perderne il patrimonio. L’alta qualità non è replicabile, e nella pizza napoletana manualità e artigianalità, la non replicabilità del gesto, rappresentano un fondamentale valore aggiunto». Ma per guardare al futuro, ha ribadito, c’è bisogno di una discussione libera e senza vincoli di sorta: «La gastronomia in Italia ha successo perché è uno dei pochi settore dove, invece di tagliare e svendere secondo un modello “bocconiano”, c’è la capacità di investire e fare ricerca». Dunque, se sembra fuori di dubbio che sia difficile migliorare e innovare pizze “non perfettibili” come la Marinara o la Margherita, sul resto della questione il dibattito è aperto. Anche a una buona dose di cazzimma, intraducibile termine napoletano suggerito da Barendson, che Pignataro spiega efficacemente così: «Cazzimma è invitare in pizzeria un critico gastronomico in cerca di “esperienze gourmet”, e fargli mangiare la Marinara».
di Luciana Squadrilli